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We were grunge.
In cammino con Chris Cornell, Kurt Cobain, Layne Staley, Eddie Vedder

di Alessandro Bruni

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    Casa Editrice: Persiani Editore - 120 pagine
    Formati disponibili: cartaceo e ebook




  • Genere: Arte / Musica

    Trama:
    Il 18 maggio 2017 Chris Cornell, cantante dei Soundgarden, viene trovato morto in una stanza d'hotel a Detroit. Sono trascorsi oltre vent'anni da quel pugno di tempo contrassegnato dal grunge e dall'ultima onda di ribellione musicale. Kurt Cobain dei Nirvana e Layne Staley degli Alice in Chains sono morti da anni e ora il destino è venuto a prendersi Cornell. Un protagonista di cui non sappiamo il nome, con il suo sole e il suo tempo in bilico sul mondo, si allontana da casa e dalla famiglia, dagli impegni presi e dal lavoro. Vuole solo camminare e scrivere, scrivere e parlare con l'ultimo di quei ragazzi che fronteggiavano il pubblico, l'ultimo ora rimasto in vita, l'ultimo ancora sul palco: Eddie Vedder. "We were Grunge" è il racconto di questo cammino di stenti, questa disputa di anime che toccano il fondo e si contendono quello che resta, nella meschinità, nella passione, nella vergogna e nella verità, sino alla conta finale per capire se esiste ancora una differenza fra soccombere e resistere.

    Recensione:
    "We Were Grunge", di Alessandro Bruni, è il racconto di un aspirante scrittore che, colpito dalla notizia della morte di Chris Cornell, decide di scrivere un libro, sotto forma di dialogo con Eddie Vedder dei Pearl Jam (appartenenza un po' troppo reiterata nel testo ma probabilmente voluta per evidenziare una sorta di ossessione da parte del protagonista), ultimo grande sopravvissuto di quell'epoca in cui i plasticati anni '80 erano appena finiti e sembrava che troppo oltre non si potesse andare ed invece arrivò il grunge, una mescola esplosiva di heavy metal, punk e hardcore. Reazione urlata e urgente, senza mediazioni, che influenzò i comportamenti e le coscienze dei ragazzi degli anni novanta ed ebbe i sui maggiori esponenti nei Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains e Pearl Jam.
    Il senso del romanzo, a mio avviso, è che c'è un momento, nella vita di ognuno, dove il come e il quando parlare d'altro per dire di se stessi diventa esigenza oggettiva. Per lo più si tratta di fare la strada all'inverso e riscoprire qualcosa (la nostra ragione di vita) che si credeva perduta, o che forse si era perduta e improvvisamente ritrovata, originaria di un tempo in cui pure c'eravamo e guarda caso non eravamo presenti con noi stessi, qualcosa che aveva importanza relativa e che pure ci passava accanto ed era parte caratterizzante del quotidiano e, proprio per questo, pensavamo non ci scalfisse nel profondo. Tutto questo, col passare degli anni, assume l'aspetto dirompente di una vera e propria crepa. Che fare quando succede qualcosa per cui la crepa diventa dirupo, canyon soggetto a essere invaso dalle acque che si sono accumulate col tempo, la cui tenuta non lascia più vivere sereni, tanto che viene voglia di un nuovo diluvio che spazzi via tutto e riporti a quando non c'era l'imbarazzo delle convenzioni mal sopportate, delle ingiunzioni odiate, dei soprusi creati da menti contorte assetate di potere?
    Il protagonista affronta un cammino difficile, fisico ma soprattutto spirituale, che a volte sembra allontanarlo dalla meta, eppure un sentiero nascosto, la presenza costante dei fantasmi di Chris Cornell, Kurt Cobain, Layne Staley, riconduce alla piena luce di uno spiazzo, e il cielo aperto è là ad attenderlo per proseguire il viaggio, per far prendere nuova forma al racconto che si dilata, si estende, assume linfa da tutto ciò che era stato abbandonato negli interstizi delle sue connessioni mentali, finendo per ricongiungersi con altri racconti non ancora scritti e che pure daranno forma al romanzo della vita.
    Non è certamente intenzione dell'Autore glorificare l'utilizzo di droghe, di cui Cornell e Staley sono stati vittime, nonché il suicidio, di cui Cobain è irrimediabilmente icona: in mezzo c'è tanto, c'è il dolore che è vita anch'esso e va affrontato e battuto; c'è il tempo orizzontale che non vale più, per cui una cosa passata e persa ci lascia sofferenze e ricordi inutili e il futuro è solo ansia irrisolvibile, e un tempo invece verticale, quello sì, che come una colonna racchiude tutto, tutto quello che si è e si è stati, tutto quello che si è amato e si amerà, tutti gli sbagli e i bivi dove si è scelta quella strada e non un'altra, è tutto lì con lui, assieme a lui nell'esatto presente in cui è, esiste. C'è la vita che va sempre allargata e mai ristretta, stringere, rimpicciolire, ripiegarsi non è vivere, bisogna ampliarsi, aprirsi, anche se questo presuppone il rischio, insito nello stesso movimento, di ricevere fregature, dolore, ferite, ma non importa... se l'infelicità in fondo è solo l'assoluta certezza e dimostrazione che anche l'altra faccia della medaglia, e quindi la felicità, esiste anche sotto la forma di un inaspettato biglietto per assistere a un concerto dei Pearl Jam.
    La felicità esiste e ci segue, come se noi camminassimo lungo la nostra strada e lei in un bosco poco distante e tra un albero e l'altro si mostrasse ai nostri occhi, come fa la luce del sole quando filtra tra i rami. E allora, se l'abbiamo vista, toccata, accarezzata in un altro tempo, cosa ci dice che, anche se ora si nasconde ed è lontana, non possa tornare solo qualche passo più in là?
    Ripensando ai personaggi "dannati" evocati dal protagonista torna alla mente "Preghiera in gennaio", il brano che Fabrizio De André dedicò all'amico (teoricamente) suicida Luigi Tenco: "Signori benpensanti spero non vi dispiaccia/ se in cielo, in mezzo ai Santi/ Dio, fra le sue braccia/ soffocherà il singhiozzo/ di quelle labbra smorte/ che all'odio e all'ignoranza/ preferirono la morte".
    (Luisa Debenedetti)



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